Le Guerre Jugoslave
Le guerre Jugoslave sono state senza dubbio l’evento più tragico avvenuto dalla fine della seconda guerra mondiale nel continente europeo. Hanno dimostrato infatti cosa può scaturire dalla mancanza di una leadership unica da parte dell’Unione Europea e dall’evolversi di interessi meramente nazionalistici in una regione continuamente martoriata da conflitti socio-culturali.
Gli antefatti
L’area balcanica è sempre stata una zona molto turbolenta dal punto di vista socio-politico a causa dei continui scontri tra i grandi imperi; il celebre politologo statunitense Samuel P. Huntington la definì infatti come una sorta di “faglia di scontri tra civiltà”.
Va ricordato infatti come la penisola balcanica venne occupata a partire dal VII d.C. dalle popolazioni di etnia slava emigrate dalle steppe euroasiatiche e transitate attraverso la porta Morava (un’area geografica che si trova tra i monti Carpazi e il sistema montuoso dei Sudeti, in prossimità dell’attuale Repubblica Ceca). Divenuti un popolo stanziale, gli slavi subirono poi una notevole influenza da parte dei differenti imperi che, a loro volta, ne cambiarono inevitabilmente numerosi aspetti sociali e culturali.
I vari regni succedutisi ed affrancatisi dai Bizantini vennero assorbiti a nord dagli Asburgo d’Austria mentre quelli meridionali e orientali, ovvero la Serbia e la Bosnia, ricevettero un durissimo colpo nella cosiddetta Battaglia della Piana dei Merli.
Il 15 giugno 1389 infatti, una grandissima parte della nobiltà serba perì nello scontro facendo così assimilare, anche culturalmente, il proprio regno dall’Impero Ottomano. Solo dopo quattro secoli riuscirono con grandissimo sforzo, e con l’aiuto non indifferente di russi e austriaci, a uscire dalla sfera d’influenza turca e rendersi pertanto indipendenti.
Infine, con le guerre mondiali e la disgregazione dei grandi imperi, gli slavi meridionali riuscirono ad unirsi in un’unica nazione, ovvero la Jugoslavia, letteralmente “terra degli slavi del sud”, nel 1929, sebbene il Paese moderno che vedremo successivamente nacque come “Repubblica Socialista Federale” solamente nel 1945.
Il crollo del concetto di “fratellanza e unità”
Il fatto che ora esistesse finalmente uno stato coeso riuscì a sopire le tensioni della regione, almeno temporaneamente. Va infatti ricordato come nel paese, sebbene ufficialmente fosse ateo, esistessero comunque tre grandi tradizioni religiose: i cattolici in Slovenia e Croazia, gli ortodossi in Serbia, Macedonia e Montenegro e i musulmani in Bosnia e nella regione serba del Kosovo.
Tuttavia, queste tensioni vennero domate dal pugno di ferro della dittatoriale figura di Josif Broz, detto Tito, maresciallo partigiano della seconda guerra mondiale che lottò contro i tedeschi dando un significativo contributo per la liberazione del Paese.
Durante il suo lunghissimo governo le poche istanze nazionaliste vennero soffocate (come nel caso della rivolta croata del 1971) e, attraverso la crescita economica, data anche dalla politica economica differente da quella degli altri stati comunisti, il paese prosperò per molto tempo.
Un altro dei pilastri del suo potere fu il concetto della “fratellanza ed unità” tra i popoli costituenti, slogan coniato durante la guerra di liberazione e la successiva convivenza pacifica nonostante le svariate differenze etnico-religiose.
Nel maggio 1980 il leader Tito morì lasciando così un vuoto di potere difficilmente colmabile; si tentò quindi di darvi soluzione attraverso la rotazione dei presidenti delle sei repubbliche al vertice del potere e un consiglio dei rappresentanti delle 8 regioni (comprese le piccole province serbe del Kosovo e Vojvodina).
Il meccanismo era però fallace in quanto nessuno aveva più la capacità carismatica e di controllo di Tito, né tantomeno la sua cerchia politica di uomini di fiducia che gli rendevano conto.
Sì arrivò così ai primi anni ’90 con un sostanziale vuoto di autorità a livello federale, cosa che, unita ad un periodo di rallentamento economico, portò Slovenia e Croazia a chiedere sempre più autonomia in campo economico e politico.
In quel momento in Serbia venne eletto Slobodan Milosevic, politico fortemente nazionalista che riuscì a porre degli uomini filo serbi alla presidenza del Kosovo, Montenegro e Vojvodina. Potè contare in tal modo su una maggioranza relativa che spinse sempre più per un accentramento del potere a livello federale a forte trazione serba, respingendo praticamente ogni richiesta da parte di croati e sloveni. Quest’ultimi si trovarono così costretti a lasciare il consiglio, ponendo quindi la parola “fine” a quell’ideale propagandato da Tito di fratellanza e l’unità.
Da quel momento in poi le cose iniziarono a precipitare inesorabilmente.
Le prime indipendenze
In Slovenia, la vittoria della coalizione indipendentista DEMOS fece in modo che il governo dichiarò l’indipendenza nel 1991, cui seguì la risposta federale attraverso l’invio dell’esercito.
La geografia della Slovenia però, costituita al 90% da colline e montagne, si confaceva più a scenari di guerriglia piuttosto che di vere e proprie battaglie in campo aperto; spesso quindi le truppe slovene riuscivano a prendere di sorpresa ed a intrappolare le armate ed i corazzati federali.
Anche a causa dei montanti problemi in Croazia, il conflitto in Slovenia durò solamente dieci giorni (dal 27 giugno al 6 luglio) per terminare con la definitiva ritirata jugoslava e quindi la vittoria degli indipendentisti.
La Croazia
Intanto in Croazia le elezioni del 1990 favorirono il candidato nazionalista Franjo Tudman che promosse sin da subito modifiche costituzionali (come la reintroduzione degli stemmi nazionali croati) e, cosa più importante, un referendum per dividere la Croazia dal resto della federazione.
Le votazioni restituirono un sorprendente risultato positivo e, di conseguenza, venne dichiarata l’indipendenza; risultava però evidente come la risposta da parte dell’esercito federale sarebbe stata tanto fulminea quanto dura.
Innanzi tutto, è importante però rendersi conto della demografia della Croazia; a quel tempo infatti numerose zone del paese erano popolate da serbi fortemente contrari all’indipendenza dalla federazione. Si accesero così focolai di rivolta e di tensioni etniche che, in alcuni casi, sfociarono in vere e proprie battaglie tra miliziani serbi e polizia.
A questo punto l’escalation di violenza divenne devastante: l’esercito federale intervenne non solo perché non riconobbe l’indipendenza croata, ma anche per supportare i ribelli serbi in Croazia. Diede quindi vita ad una sorta di banda di milizie irregolari che imperversava senza rispondere ufficialmente a nessuno. Quasta scatenò una vera e propria guerra con massacri, distruzione e bombardamenti di varie città, tra cui il sito UNESCO di Dubrovnik. Si fece inoltro ricorso ad un massiccio impiego di campi minati, che tuttora rimangono segnalati ma attivi.
Il conflitto continuò fino al 1995 ma lentamente perse rilevanza (da parte dell’esercito federale) a causa di un nuovo, sanguinoso scenario che si stava aprendo: la Bosnia Erzegovina.
La Bosnia Erzegovina
Il 3 marzo del 1992 la Bosnia Erzegovina, vedendo oramai prossimo il collasso della federazione jugoslava, dichiarò la propria indipendenza. Va tuttavia ricordato come la realtà bosniaca avesse delle peculiarità rispetto agli altri casi: nel suo territorio vivevano infatti croati di tradizione cattolica, serbi ortodossi e i bosgnacchi musulmani. Le etnie serba e croata tentarono dunque di creare a propria volta due entità statali indipendenti, rispettivamente la Repubblica Serba di Bosnia Erzegovina e la Repubblica Croata di Erzeg Bosnia, privando della stragrande maggioranza del territorio i bosgnacchi musulmani, rimasti fedeli all’entità statale che aveva originariamente dichiarato l’indipendenza.
La guerra si fece così totale e indiscriminata; in un crescendo di violenze, stupri e massacri, l’allora Comunità Europea e l’ONU si dimostrarono incapaci di frenare tale escalation.
Particolarmente evidente, nel luglio 1995, fu il caso del massacro di Srebrenica, una piccola città abitata prettamente da musulmani. Qui le truppe paramilitari della Repubblica Serba di Bosnia Erzegovina entrarono in città superando senza troppi problemi la guarnigione olandese dell’ONU (che era troppo male armata e in schiacciante inferiorità numerica, sebbene comunque non tentò neppure di intervenire). Una volta fatta irruzione, presero tutti i maschi della città, li portarono sulla collina antistante, fecero loro scavare le proprie fosse e, successivamente, li uccisero a sangue freddo. Morirono 8372 persone.
Altro caso fu l’assedio di Sarajevo (capitale della Bosnia Erzegovina) da parte dell’esercito federale; persero la vita 12.000 persone e la città perse quasi il 60% della sua popolazione a causa degli sfollati di guerra.
In alcuni casi non si trattava semplicemente di violenze, quanto più di vere e proprie operazioni di pulizia etnica. Vennero impiegati militari per cercare specificatamente un particolare gruppo etnico per ucciderne i membri, scrutando le mappe, con una precisione chirurgica e agghiacciante, per trovare i villaggi da ripulire.
Si trattò dei primi episodi del genere in Europa dalla fine della seconda guerra mondiale. La questione divenne pertanto intollerabile, richiamando così l’attenzione della NATO e degli Stati Uniti.
Fu solo con l’intervento NATO, precisamente americano, che le forze Jugoslave furono obbligate a piegarsi, ritirarsi ed accettare la pace il 14 dicembre del 1995 attraverso la stipulazione degli accordi di Dayton.
I trattati, stipulati tra il presidente croato Tudman, il presidente bosniaco Izetbegovic e il presidente serbo Slobodan Milosevic, diedero vita alla Bosnia Erzegovina odierna, comprendente le entità della Republica Srpska e dei croati di Bosnia. Venne così diviso fra loro il territorio e la presidenza venne affidata in maniera alterna alle tre comunità costitutive del paese: croati, bosgnacchi e serbi.
Il conflitto principale venne così estinto (o sopito) grazie all’intermediazione e all’intervento statunitense.
Purtroppo però i Balcani sono da sempre definiti come una polveriera; un nuovo conflitto infatti stava per deflagrare.
La guerra in Kosovo
Il Kosovo è la propaggine meridionale della Serbia ma nonostante ciò la sua popolazione è a stragrande maggioranza di etnia albanese e musulmana.
Questo causò, sin dal 1996, un esplodere di violenza in risposta alla sempre crescente centralizzazione del potere da parte di Belgrado nei confronti di ogni istanza autonomista.
Le proteste si trasformarono presto in violenza per le quali i serbi decisero di intervenire agendo nuovamente con operazioni di pulizia etnica. Va però sottolineato come anche le milizie paramilitari albanesi (come l’UCK, una delle più note) si macchiarono di crimini atroci nei confronti dei civili kosovari di etnia serba, ricorrendo spesso ad azioni terroristiche.
Anche in questo caso solo l’intervento NATO contro la Serbia nel 1999 pose fine alle violenze attraverso minacce e intimidazioni, portando così alla stipula del protettorato internazionale del Kosovo. Quest’ultimo si è quindi dichiarato indipendente nel 2008 (essendolo comunque de facto) dalla Serbia ma ottenendo solo un riconoscimento parziale a livello internazionale.
Per quanto riguarda la Federazione, si ritrovò con pochissimi territori rispetto a qualche anno prima: la Macedonia si era infatti dichiarata indipendente senza provocare l’ira o la reazione di Belgrado già nel 1991, mentre Serbia e Montenegro, che decisero di proseguire assieme, alla fine si sciolsero in due stati differenti nel 2006, portando così alla fine quell’esperimento statale che per quasi un secolo era stato noto come la terra degli slavi del sud.
L’eredità dei conflitti
Sebbene i conflitti siano ufficialmente terminati, le tensioni nei Balcani occidentali rimangono sempre altissime: non solo il teatro del Kosovo, ma persino la stabilità della Bosnia Erzegovina al momento è fragilissima e letteralmente appesa ad un filo; tuttora persistono nel paese il malessere e l’inquietudine lasciati in eredità da questi conflitti.
Da un punto di vista geopolitico infatti, queste regioni risultano interessanti per la Cina (che le usa come sua porta d’ingresso in Europa; si veda il caso della trappola del debito attuato nei confronti del Montenegro per la costruzione di un’autostrada), per la Russia (che mantiene stretti i suoi legami culturali e tradizionali con la Serbia in modo da avere sempre un attore di riferimento forte nella regione) e per la Turchia (in piena fase di un neo-ottomanismo e che sfrutta i suoi legami religiosi e storici con le popolazioni della zona per ottenere influenza).
Andrea Mura
Grazie per la lettura e buon proseguimento sul canale!
Bibliografia
- J. Pirjevec, Le guerre jugoslave 1991-2001
- B. Maran, Dalla Jugoslavia alle repubbliche indipendenti. Cronaca postuma di un’utopia assassinata e delle guerre fratricide
- C. Rivers Editions, The dissolution of Jugoslavia: The history of the Jugoslav wars and the Political problems that led to Jugolsavia’s demise